IL TRIBUNALE MILITARE 
    Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di
Calafato Calogero, nato il 19 aprile  1966  a  Ravanusa  (Agrigento),
maresciallo CC. in servizio presso il R.O.S. di Palermo, imputato  di
diffamazione aggravata (artt. 47 n. 2, 227 commi 1 e 2 c.p.m.p.). 
    Calafato Calogero veniva  tratto  a  giudizio  innanzi  a  questo
Tribunale  militare  per  rispondere  del   reato   di   diffamazione
aggravata. Secondo l'accusa, e come si rileva dalla lettura del  capo
d'imputazione, egli, in  un  esposto  inviato  a  diverse  autorita',
avrebbe  offeso  la  reputazione  del  brig.  CC.  Ferreri   Maurizio
attribuendogli vari fatti determinati. 
    All'udienza del 5 ottobre 2005 la difesa dell'imputato  sollevava
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  227  c.p.m.p.  in
relazione all'art.  3  della  Costituzione  nella  parte  in  cui,  a
differenza dell'art. 596 c.p. e alle condizioni da  questo  poste  ai
commi 3  e  4,  non  prevede  la  possibilita'  di  provare  i  fatti
attribuiti. Il Tribunale, accogliendo la questione, emetteva sotto la
stessa data la  relativa  ordinanza.  La  Corte  costituzionale,  con
ordinanza n. 49  del  25  febbraio -  4  marzo  2008,  dichiarava  la
manifesta inammissibilita' della questione sotto due profili: per  un
verso l'omissione, da parte del Tribunale, della descrizione del caso
concreto; e per altro verso la mancata indicazione di quella  tra  le
tre ipotesi previste dall'art. 596, comma 3 c.p. che ricorrerebbe nel
caso  di   specie.   All'udienza   odierna,   pertanto,   la   difesa
dell'imputato risollevava la questione di legittimita' costituzionale
negli stessi termini gia' esposti. 
    Secondo quanto si ricava dal capo d'imputazione e  dai  documenti
prodotti dalle parti all'udienza del 5 ottobre 2005 (ff. 16-113),  il
Calafato,  maresciallo  capo  CC.  in  servizio  presso  la   sezione
anticrimine corpo Carabinieri di Monreale (Palermo), con  un  esposto
indirizzato in data 25 ottobre 2004 a  vari  Comandi  dell'Arma  e  a
varie autorita' giudiziarie, avrebbe offeso la reputazione del  brig.
CC Maurizio Ferreri attribuendogli i fatti  determinati  di  spendere
con disinvoltura il nome di  un  sostituto  procuratore  generale  di
Caltanissetta, di  lasciare  l'auto  di  servizio  incustodita  sulla
pubblica via, di occupare abusivamente un  seminterrato  grazie  alla
compiacenza di istituzioni locali, di mancare di  riservatezza  cosi'
pregiudicando la sicurezza del sostituto procuratore  generale  e  di
colleghi del Ferreri, di vivere indebitamente di luce riflessa  senza
far sapere di non avere piu' rapporti di lavoro  col  magistrato,  di
utilizzare  il  nome  di  quest'ultimo  come   quello   di   «garante
inconsapevole di inqualificabili condotte», e infine di godere  della
«comprensione» del Comando provinciale CC di Caltanissetta per le sue
vicende personali. 
    L'art.  596  c.p.,  pur  escludendo  in  via  generale  la  prova
liberatoria (comma  1),  la  ammette  pero'  nelle  limitate  ipotesi
contemplate nei commi 2 e 3;  e  stabilisce  (comma  4)  che,  se  la
verita' del  fatto  e'  provata,  l'autore  dell'imputazione  non  e'
punibile. Questa speciale causa di non punibilita' rimane  del  tutto
ignota al codice penale  militare,  che  non  contiene  alcuna  norma
analoga. 
    Deve ricordarsi che il regime originario voluto dal codice  Rocco
per i reati contro l'onore non prevedeva la possibilita' della  prova
liberatoria, ma solo quella - eventuale - del deferimento a un giuri'
d'onore del giudizio sulla verita' del fatto. La  modifica  apportata
all'art. 596 c.p. nei termini tutt'oggi  in  vigore  era  intervenuta
grazie all'art. 5, d.l. 14 settembre 1944, n. 288,  che  pero'  nulla
aveva disposto riguardo alle corrispondenti fattispecie militari.  In
tal modo il  trattamento  penalistico  dei  due  settori,  pressoche'
identico quanto alla morfologia complessiva delle figure criminose di
ingiuria   e   diffamazione,   aveva   finito   per    diversificarsi
profondamente in tema di cause di non punibilita': mentre nel  codice
penale comune si risolveva in senso liberale la questione del  valore
da attribuire alla verita' dell'addebito, il  codice  militare,  nato
nel 1941, continuava  a  rispecchiare  la  sua  matrice  autoritaria,
contraria ad ammettere la  legittimita'  della  pubblica  censura  ai
comportamenti di determinati soggetti. 
    L'attuale disarmonia tra i due  settori  penalistici  non  appare
comprensibile sotto il  profilo  della  ragionevolezza,  non  essendo
possibile  individuare   alcun   valido   motivo   della   perdurante
sperequazione; e per cio' stesso  appare  ingiustificato  ex  art.  3
della Costituzione, poiche' finisce per  trattare  la  posizione  dei
militari imputati di ingiuria o  diffamazione  in  modo  pesantemente
diverso da quello previsto per i non appartenenti alle  Forze  armate
imputati di illeciti del tutto analoghi. 
    Nel caso  di  specie,  se  il  trattamento  previsto  dal  codice
militare fosse identico a quello previsto dal codice penale, dovrebbe
ritenersi ricorrente l'ipotesi contemplata nell'art. 596, comma 3  n.
1 c.p., apparendo evidente che  la  persona  offesa,  brigadiere  dei
Carabinieri, riveste la qualita' di pubblico ufficiale e che i  fatti
a lui attribuiti dall'imputato si riferiscono all'esercizio delle sue
funzioni. 
    Da cio' discende la non manifesta  infondatezza  della  questione
sollevata dalla difesa. Quanto alla sua rilevanza nel procedimento in
corso, e' appena il caso di  rilevare  che  l'esito  di  quest'ultimo
sarebbe ben diverso ammettendosi o negandosi  la  possibilita'  della
prova liberatoria  poiche'  in  un  caso  si  potrebbe  pervenire,  e
nell'altro no, a una pronuncia favorevole  all'imputato  nei  termini
previsti dall'art. 596, comma 4 c.p.